L'astronomia negli anni trenta
Durante
gli anni Venti, Edwin Hubble aveva messo fine alla controversia sulla natura
delle nebulose spirali: la
Nebulosa di Andromeda era una galassia esterna per tutti gli
astronomi. Hubble ebbe un ruolo importante anche in un’altra delle
principali scoperte cosmologiche del XX secolo: l’espansione
dell’universo.
L’astronomo olandese Willem de
Sitter, nel 1917, aveva predetto l’esistenza di una relazione fra lo
spostamento verso il rosso delle righe spettrali e la distanza per oggetti
molto lontani. Nel 1929, Hubble, usando le proprie stime delle distanze delle
galassie e le velocità radiali ottenute in precedenza, convinse i suoi
colleghi che esisteva effettivamente una relazione fra spostamento verso il
rosso e distanza e che, almeno in prima approssimazione, si trattava di una
relazione lineare. Collegando le osservazioni di Hubble con i calcoli teorici dell’abate
belga Lemaître, che nel 1927 aveva pubblicato un articolo fondamentale
sull’universo in espansione, ben presto questo fu recepito e accolto da
quasi tutti. Era nata la “legge di Hubble”.
Dalla nozione dell’universo in
espansione derivarono altre importanti conseguenze. Ritornando all’indietro
nel tempo (senza tenere conto di eventuali accelerazioni o rallentamenti
dell’espansione), si arrivava ad un momento (2.000.000.000 di anni fa) in
cui l’universo aveva dimensioni molto più piccole di quello
attuale. Diventava quindi naturale per i cosmologi cominciare a parlare di
“età” dell’universo.
Ancora Lemaître, nel 1931, propose
il primo esempio di quella teoria che in seguito sarebbe stata conosciuta come
la “cosmologia del big bang.
L’universo aveva avuto inizio da un atomo primordiale, che, molto
instabile, si sarebbe diviso in atomi sempre più piccoli. Scriveva Lemaître
«gli ultimi due miliardi di anni sono di lenta evoluzione: sono cenere e
fumo di quegli splendidi, ma rapidissimi fuochi di artificio». Era nato
il concetto di inizio dell’universo, una cosa impensabile solo pochi anni
prima e, a metà degli anni Trenta, gli studi sulle proprietà
dell’universo erano ormai molto diversi da quelli di un decennio prima.
Oltre a questi mutamenti sullo studio
delle galassie e dell’universo, sviluppi importanti si registravano anche
nell’astronomia stellare. Da tempo gli astronomi sapevano che dovevano
rispondere a un interrogativo fondamentale: se è vero che le stelle
irraggiano quantità prodigiose di calore e di luce, qual è la
fonte del combustibile da loro usato e come è possibile che continuino a
risplendere per molti milioni di anni?
Scartata l’ipotesi che fosse
l’energia gravitazionale ad alimentare l’emissione di luce e calore
delle stelle, attorno al 1917 Einstein propose che all’interno delle
stelle si sviluppasse una conversione di materia in energia prodotta da
reazioni nucleari. All’inizio degli anni Trenta, accettata oramai
l’idea delle reazioni nucleari, il problema era quello di trovare in che
modo avevano luogo le reazioni “termonucleari”, ossia le reazioni
che si verificano a temperature elevatissime.
Nel 1938, un congresso di
fisici che si teneva a Washington, Hans Bethe, fisico tedesco scappato dalla
Germania nazista, analizzò le reazioni tra protoni e altri nuclei e vide
che era possibile trasformare nuclei di idrogeno in nuclei di elio con
liberazione di energia. Bethe stimò anche che tali reazioni nucleari
potevano spiegare, grosso modo, la produzione di energia del Sole.
Da un punto di vista osservativo, nel
1936 fu fotografata, col riflettore da 100 pollici di Monte
Wilson, una galassia spirale la cui distanza risultava essere di 500 milioni di
anni luce (i giornali del tempo scrissero che era pari a «4 sestilioni e
750 quintilioni di chilometri»): il più lontano oggetto cosmico allora
conosciuto.
Ma ben presto questi confini
dell’universo sarebbero stati superati con l’entrata in funzione
del telescopio da 5 metri
di Monte Palomar, iniziato a costruire a metà degli anni Trenta, ma
inaugurato solo nel 1948, causa dei ritardi dovuti alla II guerra mondiale.
Gianluigi Parmeggiani